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Errore medico, colpa professionale medica e medicina difensiva

Relazione del Prof. Forestieri, Presidente Emerico del Collegio Italiano dei Chirurghi, a proposito di errore medico, colpa professionale medica e medicina difensiva

Prendo lo spunto dalla trasmissione Presa diretta “Palazzi di ingiustizia” trasmessa il 14 u.s.

In essa vi sono stati tre concetti illuminanti che credo possano esserci di guida nel discorso che faremo.

Piercamillo Davigo ha testualmente detto: “la giustizia è lenta perché ci sono molti processi. Punto … la possibilità di un appello o ricorso senza rischio è meramente dilatorio … la Corte Suprema di Cassazione italiana celebra più o meno 90.000 processi all’anno (di cui 60.000 circa nel penale), quella francese solo 1.000, quella americana solo 80”!

L’ex Vice-Presidente del CSM, Giovanni Legnini, nel luglio 2015 rilasciò questa testuale dichiarazione sull’esercizio della giustizia: “deve saper cogliere e prevedere le conseguenze delle decisioni giudiziarie; il loro impatto sull’economia e sulla società non può più essere considerato un tabù”.

Il suo predecessore, Michele Vietti, nel corso della trasmissione ha testualmente detto: “fare giustizia non è un esercizio algido e teorico senza tener conto delle dinamiche sociali ed economiche … anche l’esercizio della giurisdizione non va separata dal buon senso”.

Parto da queste considerazione per sottoporre ai lettori una riflessione sulla colpa professionale medica e sui messaggi distorti e vergognosi che ci vengono continuamente propinati sulle varie emittenti televisive, sui giornali e sui muri delle nostre città, persino di fronte alle stesse Strutture sanitarie.

Vi sono una distorsione ed un disallineamento piuttosto evidenti sul significato di errore medico a seconda dei diversi punti di vista: clinico, legislativo, procedurale, mediatico, associativo, ecc. Bisognerebbe cominciare a parlare con un linguaggio comune, alla base di una fiducia reciproca. Continua, invece, la perversa confusione tra errore medico e colpa professionale nonché la proliferazione della cultura della colpa e non già dell’errore, con i risvolti formativi, informativi, organizzativi e di vario genere a questa connessi.

Si trasmette, inoltre, l’idea che aumenti il contenzioso perché la sanità, soprattutto quella pubblica, è peggiorata. Idea da contrastare fortemente.

E’ prevista la circolazione transfrontaliera dei pazienti, è possibile la libera circolazione ed attività professionale dei medici, ma quelli italiani che lavorano per la salute dei nostri concittadini sono gli unici a sottostare ad una legislazione assolutamente inadeguata ed anacronistica.

In sintesi, non è più tollerabile la situazione attuale: i legislatori hanno il diritto/dovere di intervenire e di disciplinare espressamente e chiaramente la materia.

Si è parlato anche di “depenalizzare” la responsabilità del medico, con il beneficio ulteriore di “un immediato e significativo risparmio”, diretto ed indiretto.

Sia ben chiaro, però, “depenalizzare” non vuol dire assolutamente cancellare le responsabilità del medico, ma solo ridefinirle meglio, valutando la specificità dell’atto medico e la sua adeguatezza sociale e restringendo il campo alla sola colpa grave inescusabile, oltre che, in tutta ovvietà, al dolo, che come tale non attiene alla professione medica ma alla delinquenza comune.

Già solo questo porrebbe un potente argine al continuo ricorso alla medicina difensiva non solo con notevole sperpero di risorse umane, economiche, tecnologiche e strutturali (intorno ai 15-20 miliardi di euro annui) ma anche con il grave e concreto pericolo di anteporre la minimizzazione del rischio giuridico alle reali necessità diagnostiche e terapeutiche. Anni fa fu condotta un’inchiesta sulla medicina difensiva dal Centro Studi Federico Stella della Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Cattolica di Milano, ed in collaborazione con la Società Italiana di Chirurgia. Gli Autori dell’indagine conclusero amaramente: “un sistema professionale come quello medico, a rischio continuo di indagine penale, non è un sistema più attento e diligente, ma è un sistema che riduce i rischi di chi agisce cercando maggiori tutele formali, anche a scapito dell’utenza. Da qui l’origine della medicina difensiva … La tutela della salute del paziente può, così, diventare, per il sanitario, un obiettivo subordinato alla minimizzazione del rischio legale”.

La ricerca delle tutele formali a cui si è sempre più costretti va a discapito non solo della salute del paziente ma dell’economicità, intesa in senso lato, dell’intero settore. Qualche precisazione sull’indagine può chiarire, ai non addetti ai lavori, l’entità e la gravità del problema, assolutamente inimmaginabile: il 68,8% ha accettato/proposto il ricovero di un paziente in ospedale, anche se le condizioni ne avrebbero consentito una gestione ambulatoriale; il 61,3% ha prescritto un numero maggiore di esami diagnostici rispetto a quello necessario; il 58,6% ha chiesto un consulto specialistico non necessario; il 51,5% ha prescritto farmaci non indispensabili; il 26,2% ha escluso pazienti “a rischio” da alcuni trattamenti (oltre le normali regole di prudenza); il 24,4% ha prescritto trattamenti non necessari; il 14,3% ha richiesto procedure invasive non necessarie ed il 14,0% ha evitato procedure diagnostiche o terapeutiche rischiose su pazienti che avrebbero potuto averne beneficio.

In Italia, peraltro, è possibile (a differenza che negli altri Paesi, salvo e per alcuni versi la Polonia ed il Messico) il ricorso al penale per responsabilità professionale medica, per di più facilitato dalla gratuità del procedimento e, molto spesso, impiegato quale strumento di pressione indebita.

In un’indagine condotta pochi anni fa dalla Commissione parlamentare di inchiesta sugli errori sanitari, di cui ero consulente, si dimostrava che la quasi totalità dei procedimenti si concludeva con l’archiviazione (ben il 98,1% dei procedimenti per lesioni colpose e ben il 99,1% dei procedimenti per omicidio colposo).

Non normare specificamente l’atto medico, quindi, comporta anche moltissimi processi “inutili”, lunghi (durata media 8 anni) e costosi, con ulteriori conseguenze anche sul malfunzionamento della Giustizia, differendo i casi che, invece, dovrebbero essere trattati con maggiore celerità, e con altro notevole, quanto ingiustificato ed ingiustificabile, dispendio economico.

I chirurghi sono particolarmente sensibili alla problematica, essendo i destinatari del contenzioso in circa il 40% dei presunti casi di errori diagnostici ed in oltre il 60% dei presunti casi di errori terapeutici.

Carlo Nordio dichiarò testualmente: “le denunce false per presunti casi di malasanità sono, in percentuali molto rilevanti, tentativi di arricchimento che fanno danni enormi alla tutela della salute dei cittadini ed alle casse dello Stato. È un fenomeno datato, ma che cresce esponenzialmente e parallelamente all’accentuarsi della crisi economica”.

Vittorio Occorsio, autore di uno studio sui casi di malasanità, affermò: “per i pazienti è più facile avere ragione e le cause sono diventate un business”.

Da molti anni, il Collegio Italiano dei Chirurghi chiede alcuni correttivi legislativi per porre fine a questo assedio ed a queste storture dagli inimmaginabili risvolti sociali e costi economici.

Sarebbe ora che i legislatori procedessero: ad una ridefinizione esplicita dell’atto medico, che, per la sua assoluta specificità e per la sua adeguatezza sociale, può e deve essere penalmente perseguito solo per dolo o colpa grave inescusabile; a disincentivare il ricorso al sistema penale, soprattutto in assenza di certezza della prova, perché più rapido ed economico o come leva per ottenere un risarcimento; ad una riduzione a 5 anni effettivi dei termini di prescrizione; all’introduzione del

concetto di lite temeraria, con diritto di querela/rivalsa, ovvero di deposito cauzionale (5-10%). I relativi importi, detratti dalle eventuali spese legali, andrebbero nel Fondo di garanzia per le vittime dell’alea terapeutica; all’obbligatorietà di preliminari percorsi extragiudiziali alternativi.

Tutte queste misure, inoltre, avrebbero un effetto estremamente benefico sulla qualità delle cure e sul rapporto medico-paziente.

La persistenza di una cultura della colpa, sempre e comunque, diviene, infatti, il più grande ostacolo alla creazione di una cultura efficace della sicurezza del paziente, favorendo un sistema di tutele formali e non sostanziali da parte del singolo e trascurando del tutto il ruolo, quasi sempre determinante, del contesto organizzativo deficitario.

Dobbiamo ricercare un giusto ed equo bilanciamento tra l’esigenza di salvaguardare gli operatori sanitari da iniziative giudiziarie che spesso vengono avvertite come arbitrarie ed ingiuste e che nella gran parte dei casi sono del tutto infondate e la necessità di tutelare i diritti dei pazienti (e dei loro familiari) che si ritengono danneggiati da episodi di medical malpractice.

Mi auguro che anche nel nostro Paese sia finalmente possibile superare concettualmente un conflitto apparentemente inestinguibile e coniugare la giusta tutela degli interessi dei pazienti con una tutela del medico tale da permettergli di svolgere la sua funzione nella necessaria serenità.

Le Regioni dovrebbero prevedere un fondo di solidarietà per l’indennizzo delle vittime da alea terapeutica (FAT) per quei casi che, pur meritevoli di tutela, non siano ricollegabili ad ipotesi di responsabilità dell’Azienda per carenze organizzative o strutturali, né ad ipotesi di imprudenza, negligenza ed imperizia del medico, derivando dall’alea insita nella patologia o nella metodica ovvero costituiscano complicanze indipendenti dalle condotte incensurabili del sanitario o dell’Azienda.

Chiediamo, soprattutto noi chirurghi, di poter lavorare in serenità: “Una disciplina della responsabilità per colpa medica potrebbe essere attuata mutuando le sperimentate regole della responsabilità civile del giudice, accomunata dalla analoga connotazione di attività da svolgere al riparo da pressioni esterne in un campo fisiologicamente non immune dal rischio di errore umano” (Libertino Alberto Russo).

E’ un accorato appello che lanciamo affinché questa meravigliosa professione possa essere continuata a svolgere dalle giovani leve.

Non a caso, lunedì 21 gennaio 2019 si è svolto in una sala del Senato il Convegno “Diventare chirurgo generale oggi: una scelta difficile”.

Chiediamo solo che non sia impossibile.

Pietro Forestieri

Presidente Emerito del Collegio Italiano dei Chirurghi